Mia madre vedeva le sue amiche: sempre le stesse. A parte la Fran-
ces, e alcune altre che eran mogli di amici di mio padre, mia madre le
sue amiche se le sceglieva giovani, un bel po’ più giovani: giovani si-
gnore sposate da poco, e povere: a lor poteva dare consigli, suggerire
delle sartine. Le facevano orrore « le vecchie », come lei diceva, allu-
dendo a gente che aveva press’a poco la sua età. Le facevano orrore i ri-
cevimenti. Se una delle sue anziane conoscenze le mandava a dire che
sarebbe venuta a farle visita, era presa dal panico. — Allora oggi non po-
trò andare a spasso! — diceva disperata. Quelle amiche giovani, invece,
poteva tirarsele dietro a spasso, o al cinematografo; erano maneggevoli e
disponibili, e pronte a mantenere con lei un rapporto senza cerimonie;
e se avevano bambini piccoli, meglio, perché lei amava molto i bambini.
Accadeva a volte che il pomeriggio, queste amiche venissero a trovarla
tutte insieme. Le amiche di mia madre si chiamavano, nel linguaggio di
mio padre, « le babe » [old women]. Quando s’avvicinava l’ora di cena,
dal suo studio, mio padre urlava a gran voce: — Lidia! Lidia! Sono an-
date via tutte quelle babe? — Allora si vedeva l’ultima baba, sgomenta,
scivolare nel corridoio e sgusciare via dalla porta; quelle giovani amiche
di mia madre avevano tutte, di mio padre, una gran paura. A cena, mio
padre diceva a mia madre: — Non ti sei stufata di babare [hang around
with old women]? Non ti sei stufata di ciaciare [cianciare]?...
Mio padre, quando si sposò, lavorava a Firenze nella clinica d’uno
zio di mia madre, che era soprannominato « il Demente » perché era
medico dei matti. Il Demente era, in verità, un uomo di grande intelli-
genza, colto e ironico; e non so se abbia mai saputo di essere chiamato,
in famiglia, così. Mia madre conobbe, in casa della mia nonna paterna,
la varia corte delle Margherite e delle Regine, cugine e zie di mio padre;
e anche la famosa Vandea, ancora viva in quegli anni. Quanto al nonno
Parente, era morto da tempo; e così pure sua moglie, la nonna Dolcetta,
e il loro servitore, che era Bepo fachin. Della nonna Dolcetta, si sapeva
che era piccola e grassa, come una palla; e che faceva sempre indige-
stione, perché mangiava troppo. Stava male, vomitava e si metteva a
letto; ma dopo un poco la trovavano che mangiava un uovo: — Il xè
[È, in the dialect of Trieste, the family’s city of origin] fresco, — diceva per
giustificarsi.
Avevano, il nonno Parente e la nonna Dolcetta, una figlia, chiamata
Rosina. A questa Rosina le morì il marito, lasciandola con bambini pic-
coli e pochi denari. Tornò, allora, nella casa paterna. E il giorno dopo
ch’era tornata, mentre sedevano tutti a tavola, la nonna Dolcetta disse
guardandola:
— Cossa gà [Cos’ha] oggi la nostra Rosina, che non la xè [che non è]
del suo solito umor [umore]?
La storia dell’uovo della nonna Dolcetta, e la storia della nostra
Rosina, fu mia madre a raccontarcele per disteso; perché mio padre, lui,
raccontava male, in modo confuso, e sempre inframmezzando il rac-
Lessico famigliare
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